venerdì 9 luglio 2010

Ricordo di Dimitri Plescan

Non posso dire di averlo conosciuto, perché quando ebbi l’occasione di incontrarlo era già molto malato, inchiodato a una sedia a rotelle e chiuso in un mutismo che non si è mai riuscito a capire quanto fosse un limite fisico e quanto invece non fosse una scelta determinata di esilio dal mondo. Non sono mai riuscito a capirlo, ma anche per chi gli è stato più vicino, Dimitri Plescan è sempre stato un uomo insondabile, in un certo senso misterioso. Quando lo vidi per la prima volta, all’inaugurazione di una mostra di Giovani Cerri, era già così, e quella doveva essere una delle sue ultime, se non proprio l’ultima, uscite per partecipare a una inaugurazione. Ed era presente soprattutto per un valore affettivo, dato che Dimitri aveva tenuto quasi a battesimo (battesimo artistico ovviamente) Giovanni, presentandone una delle prime mostra, a Lodi, nel 1993. Una mostra che mostrava molti punti comuni fra il giovanissimo Giovanni, che aveva più o meno l’età che io ho adesso, e il più maturo pittore, amico del padre, Giancarlo Cerri.
È però soprattutto l’amico Gabriele Poli che me ne ha parlato talmente tanto che è come se lo avessi conosciuto di persona anche io, o almeno abbastanza per rendermelo familiare, anche se sempre con questi tratti di figura imperscrutabile che ne facevano, ai miei occhi, come una figura leggendaria, con un nome esotico ma molto musicale, un nome che non ne tradiva in realtà i natali milanesi, nel 1931. Era stato suo allievo al liceo Boccioni di Milano, e da allora gli era sempre rimasto legato: forse, anche nel suo profilo artistico, è stata la figura che ha contato di più negli anni formativi, anche più dei successivi anni di Accademia. Ma al di là di questo, c’era da parte di Gabriele, nei confronti del Plescan, un rapporto non solo di stima, ma una vera e propria amicizia coltivata per decenni.
Di poche parole, estremamente meditativo e di grande lentezza, ma nello stesso tempo di acuta e pungente intelligente, posso azzardarmi a dire che degli artisti della sua generazione, a Milano, Dimitri Plescan sia stato quello con la mano di più felice invenzione creativa, anche se fu al tempo stesso la più parca.
Di lui si può dire, come si usa per molti artisti antichi dal catalogo numericamente assai limitato, che fu “pittore di pochi quadri”, ma di molti disegni, di cui molti sui supporti più anticonvenzionali e più disparati. Piccoli e mordenti schizzi di segno ruvido e filamentoso fiorivano sui bordi di fogli e volantini, in mezzo a scritti e appunti, a brevi note di polemica o a pensieri sparsi. Riunire queste carte sarebbe come ricomporre un diario, o i frammenti di un unico discorso fra cui si dovrebbe trovare il collante emotivo.
Questo non significa che non esistessero disegni compiuti, fatti con tutti i crismi dell’opera finita, ma non c’era mai quella cura o quell’attenzione che strizzava l’occhio al mercato: quello che contava era il fare, lento e laborioso, di continua riflessione. È una osservazione che ho riscontrato ricorrente nel ricordo di tutte le persone che ho incontrato e che li hanno conosciuti bene: i Plescan, sia Dimitri sia suo fratello Pietro (anche lui pittore), erano persone che pensavano molto e a lungo, che ponderavano tutto con estrema lentezza, con apparizioni e presentazioni pubbliche della loro opera che erano via via sempre più sporadiche.
Non ne ho ricordi personali, se non di un uomo molto malato, chiuso in un mutismo impressionante, perché riusciva ad essere fortemente comunicativo anche senza l’uso della parola, dalla sola mimica del volto: parlava con gli occhi, con l’inarcarsi delle sopracciglia e un leggero movimento ai bordi della bocca, ma abbastanza per fare capire che era presente e cosciente, e che in un certo senso esprimeva la sua. Ricordo una volta che Gabriele gli dissi “Dimitri, mettiti in posa ch ti faccio una foto” e lui gli rispose con una smorfia ironica arricciando il naso.
Mi aveva colpito molto entrando nella sua abitazione con Gabriele, una delle prime volte che vi mettevo piede, un enorme manifesto della mostra di Picasso a Palazzo Reale alla metà degli anni Cinquanta, da cui sbucava con prepotenza Guernica, esposta per la prima volta in Italia nella Sala delle Cariatidi. Da una parete del salotto campeggiava questo grande monito, che era rivelatore, a mio avviso, dell’approccio alla vita e del pensiero del suo padrone di casa. Ma ricordo anche, per intima passione bibliofila, un catalogo di interessi eclettici e disparati che saltavano fuori dalla sua biblioteca, in cui libri di storia dell’arte si mischiavano a testi di letteratura e filosofia, di psicologia e di altre materie. Fra tutti, mi colpì molto trovare lì una copia del libro di Oliver Sachs sull’Emicrania, e quello di Lang su “L’io diviso”. Quest’ultimo, in particolare, sono convinto che sia stato importante nell’elaborazione di alcuni suoi disegni di uomini dissociati, fisicamente divisi: ad uno sguardo superficiale si potrebbe pensare al Barone dimezzato di Calvino; ma a uno sguardo profondo, penso che quel disegno fosse una metafora dell’io diviso.
Del resto, tutta l’opera di Dimitri Plescan procedeva per metafore, per visualizzazione di concetti. Un disegno per tutti, un grande carboncino con un castello di carte che prendeva la forma, dai contorni, di una falce e di un martello: era stato fatto pochi anni prima della caduta dell’Unione Sovietica, di cui percepiva le fondamenta vacillanti (un castello di carte appunto). Anche da questo nasceva il ritratto, per la maggior parte tramandatomi ancora da Gabriele, di un uomo di giudizi fondati, con delle intuizioni lungimiranti al limite della preveggenza, in anticipo su fatti che si sarebbero verificati in tempi non troppo successivi.
Anche su questo, secondo me, si fonda il mito di Dimitri Plescan. Spegnendosi la mattina dell’8 luglio, viene a mancare un uomo dai contorni sfuggenti, inafferrabile e impenetrabile sotto certi aspetti, che per una vita ha costeggiato, come voce critica sempre fuori da ogni possibile manierismo e da ogni possibile coro, la temperie del Realismo Esistenziale e la crisi dell’identità moderna. In questa chiave, come scrisse una volta di lui Vanni Scheiwiller, si andava oltre il realismo sociale per una lettura nuova del disagio dei tempi: «Ringraziamo tutti Plescan che tenta di guarirci da una pittura fin troppo “associata”: e buonanotte Guttuso!».

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